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San Rocco e San Pio.

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<<Rocco ti devo qualcosa, che passi dritto come un treno>>?

<<Pio, non fare finta di non sapere niente, a settembre io avevo una festa a San Salvo e piano piano l’hanno fatta sparite>>!

 

Tutto quello che rimane a San Salvo, della festa di San Rocco, è il nome che si da ancora a un appuntamento solamente commerciale che continua a svolgersi a metà settembre, “La Fiera di San Rocco” la stessa nasceva in onore del Santo. Mentre la popolazione negli ultimi anni ha spostato i festeggiamenti con suoni, canti e fuochi pirotecnici al 23 settembre, su un nuovo Santo più attuale, San Pio da Pietrelcina. Eppure San Rocco un tempo era la festa più importante dopo San Vitale, si festeggiava il 17 e 18 Settembre con la banda ad accompagnare la processione.  Era l’ultima festa dell’anno a San Salvo che iniziavano ad aprile con la festa del Santo Patrono. Della festa religiosa rimane una statua grande di San Rocco nella chiesa di San Giuseppe e una piccola chiesa in suo onore chiusa, dove è rinchiuso Sàndë Rucchìccë (San Rocchino, chiamato con affetto dai sansalvesi per la sua minuta fattura) piccola statua di San Rocco, che un tempo, una settimana prima della festa, era portato in processione verso la Chiesa madre di San Giuseppe e posta vicino all’altra statua. Ora San Rocco non si festeggia più, come è capitato ad altri Santi, presenti nelle tradizioni popolari di noi sansalvesi, che a sua volta stiamo man mano scomparendo come popolazione autoctona.

Stefano Marchetta

Set 21, 2016 - Articoli, Vignette    No Comments

Handicappato?

In occasione delle Paralimpiadi, mi è capitato spesso di leggere piccole frasi estrapolate da lunghe interviste fatte ad atleti vincitori di medaglie d’oro, solo con l’intendo di dare un messaggio: ”Alla fine il problema delle persone con disabilità fisiche, si riducono tutto a impegno, forza di volontà e voglia di vivere”.

Poi basta uscire da casa e vedere queste persone costrette ad andare con la carrozzella in strada tra le auto, perché sanno già che alla fine del marciapiede se non c’è qualcuno ad aiutarli hanno difficoltà a proseguire il loro viaggio, per colpa di un lampione o in palo al centro del percorso o manca lo scivolo.

Tutto ciò ha un costo, allora è meglio cambiare loro il nome per rispetto, per non offenderli come qualcuno afferma, così il problema è risolto.

Stefano Marchetta

handicappato

handicappato

Torricella Valerio e il cane Dragone

Torricella Valerio (Valerio con i suoi cavalli).

È ancora vivo nei suoi ricordi come se fosse successo ieri, si nota nei suoi occhi e si sente nel fragore delle sue risate, quando mio suocero Vitale Melodini, mi racconta questo episodio, finendo la storia dicendo: “Mànnë èrë e mànnë è”! (Che mondo era e mondo è!)

Era una notte d’inverno degli anni ’50, nel buio più scuro, delle ombre furtive si aggiravano nella piccola piazzetta tra il 6° vico Garibaldi e il 7° vico Savoia nei pressi della casa di Valerio Torricella con l’intento di rubare i cavalli tenuti nella stalla, sapendo che tutta la famiglia dormiva al piano superiore.

A far compagnia ai cavalli c’era anche Dragone un cane anziano che si era fatto la cuccia nella paglia per stare più caldo.

Nel silenzio più assoluto uno dei malfattori inserì il braccio nella hattaròlë (buco praticato nella parte bassa della porta per favorire il passaggio dei gatti) per riuscire a togliere il paletto che manteneva chiusa la porta, Dragone non abbaio né si mosse dal suo giaciglio, ma emise solo una specie di grugnito lamentoso che fece allertare il suo padrone, che subito capì che qualcosa non andava.

Scese le scale con passo felpato e subito vide nella penombra un braccio che si muoveva, con uno scatto fulmineo afferro quel braccio bloccandolo all’interno, chiamo la moglie e le chiese di passargli la rattacàscë (la grattugia) che cominciò a passarla sulla mano del mal capitato, fino a quando il sangue non cominciò a uscire.

La mattina seguente Valerio vide uscire dallo studio del dottor Vitaliano Ciocco posto su Corso Garibaldi poco distante da casa sua Carmine T., con la mano tutta fasciata. Avvicinatosi, gli chiese cosa fosse successo, lui rispose “Tenàvë la còrdë dë l’àsenë abbretètë a la mènë, candë dë bòttë a terètë e më la scurcuatë” (Avevo la corda dell’asino arrotolato nella mano, quando di colpo ha tirato e me la sbucciata), Valerio di contro battuta gli disse “Lë cavèllë dë Valèrië ‘n zë tòcchë” (I cavalli di Valerio non si toccano).

Quando Valerio morì, Dragone pianse quindici giorni sulla tomba del suo padrone, il custode del cimitero tentò di cacciarlo ma rischiò solo di essere morso.

Dragone morì alla venerabile età di ventuno anni.

Stefano Marchetta

Ago 16, 2016 - Articoli    No Comments

NOTTAMBULA 2016

Nottambula a San Salvo è quella manifestazione che in tutte le altre parti viene chiamata La Notte Bianca.

Come prima cosa voglio ringraziare quelle persone che hanno sollevato critiche verso la manifestazione di ”NOTTAMBULA”, perché mi hanno regalato il ricordo di un piccolo dialogo che feci con mio padre. Circa quaranta anni fa, in una soleggiata domenica mattina d’estate mi ritrovai a passeggiare nella villa comunale con mio padre e altre persone. Alcuni erano molto più anziani di mio padre, a un certo punto girarono a destra lungo quella stradina che un tempo attraversava la villa, dove cerano delle panchine di marmo e delle panche di legno con tavolo, dove i vecchi giocavano a carte all’ombra fresca delle piante. In una delle panchine riparata dalla complicità di un ramo di un albero cresciuto verso il basso, una coppietta abbracciata pomiciava, scambiandosi i sogni dell’età, subito uno degli anziani che stava con noi li apostrofo e li rimprovero con parole pesanti:

“ Scuštumìtë, vrettacchìenë, a li timbë mì štë còsë nin zë faciàvë”!

(Scostumati, sporcaccioni, ai miei tempi queste cose non si facevano).

Costringendo i ragazzi ad alzarsi e con passo veloce allontanarsi.

Mio padre guardando la mia faccia attonita e dispiaciuta, in un secondo momento mentre tornavamo a pranzo, scendendo per via Fondana Vecchia, ritornando sull’accaduto esclamò: ” Šté, ‘n gi fa’ casë è la ggilusèijë dë la vecchiàijë, candë hìunë nnë lë po fa cchì, štrèllë e dècë ca štë còsë nni zë ffa’, a chë sèrvë ”. (Stefano, non fare caso è la gelosia della vecchiaia, quando uno non può fare più certe cose, strilla e dice che queste cose non si fanno, a cosa servono). Questo per dire che le cose bisogna godersele in base all’età che si ha al momento non a quello che avremmo voluto fare da giovani quando sono mancate le occasioni o eventi del genere non c’erano e come dire “Nièndë jé, nièndë a niscìunë” (Niente a me, niente a nessuno).

Come la musica tutti l’abbiamo ascoltata con il volume a manetta, nel tempo abbiamo variato l’audio in base alle nostre esigenze, non abbiamo smesso di ascoltare canzoni.

Stefano Marchetta

“Nicola Marchetta e l’Andrea Doria, storia di un viaggio, 60 anni fa”.

Era già notte il 26 luglio 1956 quanto a San Salvo arrivo la drammatica notizia che il transatlantico Andrea Doria diretto a New York era affondato.

L’oscurità era illuminata dalle fiocche luci dei lampioni e da una luna quasi piena che schiarivano i vicoli bui, mentre un via vai di persone migrava di casa in casa, alcuni piangevano altri muti e persi, andavano in cerca di notizie sicure, riassicurazioni per il loro cuore affranto e pieno di preoccupazioni, sorretti solo dalla speranza, dalla fede e dalla preghiera.

Vi chiederete perché? Bisogna tornare indietro di qualche mese, Nicola Marchetta fratello di mio nonno Antonio, stanco di avere per amici la fame e la miseria con la moglie Carolina Di Biase e i quattro figli minori, Bruno, Adelina, Elda e Michelina, decise di emigrare negli Stati Uniti d’America, lasciando i cinque figli più grandi che erano già sposati o in prossimi a farlo nel paese natio. I parenti tutti si riunirono per salutarli prima della loro partenza per Napoli (foto a), dove avrebbero preso la grande nave. L’indomani della partenza il figlio Bruno malato non poté partire, li avrebbe raggiunti in seguito con altri paesani che erano in procinto di partire. Arrivati a Napoli, ebbero la sgradita notizia che c’era stato un errore, i posti disponibili sull’Andrea Doria erano solo due gli altri posti erano disponibili sulla C. Colombo (foto d) la nave gemella, altrimenti dovevano aspettare alcuni giorni e partire tutti insieme, così fecero. Ai molti passeggeri in attesa dell’imbarco, consigliavano di ricevere tutti i crismi, così in una chiesa vicino al porto furono cresimati tutti quelli che non avevano ricevuto il sacramento, perché una volta arrivati bastava un cavillo per negare lo sbarco ( foto b).

In attesa della loro partenza zio Nicola insieme alla sua famiglia andò a vedere lo spettacolo festoso della partenza dell’Andrea Doria che si allontanava verso l’orizzonte, cosa che avrebbero fatto anche loro verso una nuova vita. All’oscuro di ciò che sarebbe successo e senza esserne consapevole il suo destino stava cambiando in quel momento. Durante il viaggio sulla C. Colombo non furono informati della collisione delle due navi(foto c), dove persero la vita cinquantuno passeggeri, solo all’arrivo seppero dell’accaduto e cercarono subito il modo di telefonare a San Salvo per rincuorare tutti i famigliari convinti che loro erano a bordo dell’Andrea Doria, che avevano vissuto quei giorni interminabili con tanta apprensione. Questa triste storia mi ha fatto sempre pensare che la nostra sorte è legata a un filo, forse per incuria o per favorire qualcuno, l’addetto a prenotare i posti ha cambiato la vita di zio Nicola e famiglia. Se loro fossero stati sull’Andrea Doria dopo lo spavento di quella sciagura, sarebbero forse rientrati in Italia e continuato la loro vita a San Salvo da dove l’avevano lasciata, invece in America i figli si sono sposati fatti una posizione e sono nati nipoti e pronipoti.

Stefano Marchetta

1956 tutti Parenti (foto a)Tutti i Parenti

C.Colombo TRANSATL  (foto d)La C. Colombo

prima dell'imbarco sul transatlantico C.Colombo cresimati

( foto b)La Famiglia Marchetta la cresimati prima dell’imbarco  .

medium_andrea-doria (foto c)

 

 

 

Mag 21, 2016 - Articoli    No Comments

Lu Tùcchë e la Màla Lòffë

Ricordo che un tempo noi ragazzini per designare chi doveva iniziare un gioco, facevamo a lu tùcchë (la conta) contare il numero dato dalla somma delle dita mostrate dai partecipanti al gioco, mentre le femminucce usavano la filastrocca “Ambarabà ciccì coccò” più conosciuta a livello nazionale.

«Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò, che facevano l’amore, con la figlia del dottore; il dottore si ammalò: ambarabà ciccì coccò! »

O la filastrocca più paesana della “Màla lòffë”, le bimbe usando una canna (o altri oggetti) declamava la tiritera in sillabe, toccando i piedi delle compagnucce sedute su degli scalini in modo continuo e sceglierne una sull’ultima parola.

“Pìndë, pendùlë, pindòffë,

chì l’à fàttë la mala lòffë,

la fàttë lu chìulë puzzulèndë,

c’à ‘mbuzzenètë tùttë la ggèndë

e lë së fàttë pròprië tì”.

Inizialmente la filastrocca era nata ed era usata per scoprirne chi era il responsabile, quando si avvertiva uno sgradevole odore di una scarica corporale, (la cosi detta “loffa”).

L’operazione di accertamento avveniva scandendo sugli indiziati, in senso rotatorio, le sillabe della filastrocca, la colpevolezza era inesorabilmente attribuita a colui sul quale, cadeva l’ultima sillaba della filastrocca.

Marchetta Stefano

Mag 10, 2016 - Articoli    No Comments

Fratelli di latte

Ci sono e ci sono sempre stati i fratelli dello stesso sangue, nati dall’unione di un uomo e una donna.

Un tempo a San Salvo, dove non esisteva il latte in polvere o latte artificiale, che troviamo ora con tanta facilità venduta in farmacia, quando le neo madri dopo il parto non avevano la sfortuna di non avere latte a sufficienza per allevare il proprio piccolo, aveva due scelte. Ho dare un latte animale che non sempre riusciva a far sopravvivere il nascituro o si rivolgeva e chiedeva aiuto a quelle donne che avevano partorito da poco e avevano tanto latte da poter allevare e sfamare più piccoli. Nel preciso momento, istante in cui il neonato appoggiava le minuscole labbra sui capezzoli della balia, nasceva un vincolo, un nodo con l’altro nascituro figlio della nutrice.  Questo legame univa nel tempo con rispetto amicizia era chiamato FRATELLI DI LATTE (o sorella), molti continuavano questo rapporto come veri e propri parenti. Mia suocera Vitalina in un dolce e tenero mi raccontò che fu la balia di un neonato vicino di casa, Valerio Torricella nato nel periodo che lei era diventata madre per la prima volta nel 1962, ne consegue che lui divenne fratello di latte di mia cognata Antonietta.

Stefano Marchetta

Apr 25, 2016 - Articoli    No Comments

Vitale Melodini (mio suocero).

Vitale Melodini, nasce a San Salvo, il 24 aprile del 1937 da una famiglia poverissima, in una vecchia masseria. Ha solo tre anni, quando improvvisamente, la mamma Antonietta Cilli, muore. Il padre Angelo, dopo qualche mese dalla scomparsa della sua inseparabile compagna, si ammala seriamente. Valerio Torricella e Marietta Fabrizio (famiglia di carrettieri), pur avendo sette bocche da sfamare: cinque femmine e due maschi (Vitale e Guido), decidono di tenere in casa loro, quel bambino orfano della madre. La famiglia Torricella gli vuole un bene immenso, lo accudisce al pari di un figlio. La guerra sta per finire, Vitale ha quasi otto anni, ed ha già un lavoro: la custodia di un gregge. Un giorno, mentre conduce le pecore al pascolo, è investito da un camion pieno di soldati inglesi. L’autista, però, non si accorge dell’incidente e continua la sua corsa. Vitale con la gamba maciullata e una profonda ferita alla testa non può muoversi, e resta per lungo tempo sul selciato perdendo sangue. Trascorre quindici giorni e quindici notti dentro una piccola masseria; riesce a sopravvivere nutrendosi di grappoli d’uva. La famiglia Torricella lo cerca disperatamente. Lo zio Costantino Torricella, dopo lunghe ricerche ritrova Vitale stremato e macilento. Con l’aiuto di Cesare Ricci e Nicola Molino (quest’ultimo conosceva bene la lingua inglese), caricano il poveretto su una camionetta inglese e lo trasportano all’ospedale di Vasto, dove resta per sei mesi. Una volta guarito si dedica al trasporto delle merci come d’altronde tutta la famiglia Torricella. Una notte, gli appare in sogno la madre Antonietta che lo avverte: “ Un giorno, il tuo carretto si rovescerà e tu ci finirai sotto, stai attento, la Madonna ed io ti salveremo”. La settimana seguente, mentre Vitale trasporta un carico di canne lungo un viottolo della “Rotella”, il cavallo comincia a imbizzarrirsi. Il carretto si ribalta, e insieme al cavallo, sprofonda in un fosso. Vitale rimane sotto il ventre dell’animale con le gambe impigliate ai finimenti. In quel momento gli appare di nuovo il volto della mamma che lo rassicura. Subito soccorso da Angelo Bruno, Guido Torricella e altri contadini, esce indenne dal brutto incidente. I Torricella incrementano l’attività di trasporto delle merci con l’acquisto di altri cavalli, carretti e carrozze per gli sposi. All’inizio di primavera, la famiglia Torricella, compra un cavallo di una razza araba, snello, focoso, di colore bianco, adatto anche per la riproduzione. Il suo nome è “Lucifero”, è un animale intelligentissimo, ma sferra poderosi calci a qualsiasi persona gli si avvicina, è un cavallo irascibile e indomabile. Vitale, con la pazienza e la dolcezza, che solo un esperto di cavalli sa usare, dopo alcune settimane riesce ad addomesticarlo, nasce tra l’uomo e l’animale, una profonda amicizia. Purtroppo, la famiglia Torricella, dopo alcuni anni, decide di vendere il cavallo al migliore offerente e di chiudere l’attività, Vitale piange disperatamente. “Come farà a vivere senza il suo Lucifero?”. Im quei giorni arrivò la cartolina rosa del servizio militare che lo portò a Milano. E’ un pomeriggio d’estate, il sole spacca le pietre, mentre costeggia la staccionata di un ippodromo, scorge un cavallo dal colore bianco, snello e dalla corporatura perfetta, il suo cuore comincia a battere veloce, resta impietrito, poi, con la voce bloccata dall’emozione, emette un grido: ”Lucifero!”. Il cavallo drizza le orecchie, poi s’inerpica sulle zampe posteriori e nitrendo ripetutamente galoppa verso il vecchio “amico”. Vitale gli corre incontro, si aggrappa forte al suo collo e scoppia in un pianto irrefrenabile. Come davanti a un vecchio confidente gli racconta tante storie, il cavallo ascolta, si fa tardi e il treno sta per ripartire. Vitale non ha il coraggio di andarsene. Dà un ultimo abbraccio al cavallo, e con gli occhi pieni di lacrime, si avvia con passo lento verso il treno, mentre il nitrito di Lucifero risuona come un pianto disperato di chi lascia per sempre un grande amico.

Michele Molino

Apr 5, 2016 - Articoli    No Comments

Il 27 Aprile 1980 la Banda dei Carabinieri a San Salvo.

Nel 1980 dopo vari eventi successi a San Salvo, il comitato festa di San Vitale fu al quando numerosa, ne furono almeno 100. Tra i tanti c’era il cav. Cilli Virgilio che tra i suoi desideri rientrava la voglia di portare nel suo paese la banda dei carabinieri al completo. Con pazienza e toccando i tasti giusti, riuscì nel suo intendo, il 27 aprile nel pomeriggio la banda fu schierata all’inizio di Corso Garibaldi per sfilare per le strade del nostro paese guidata dal colonello, maestro Vincenzo Borgia, mentre delle timide gocce di pioggia iniziavano a scendere. Il palco per accogliere i 105 elementi della banda era pronto davanti alla chiesa di San Giuseppe, una volta arrivati in centro, la pioggia inizio copiosa e forte, la banda si rifugiò sotto il porticato del comune, dove poi sotto la pioggia che non avrebbe smesso solo a notte inoltrata, fu fatta una piccola cerimonia e suonate qualche brano. Così la serata come lo aveva pianificato il cav. Cilli Virgilio rimase un sogno. Ricordo che qualcuno disse “Significa che San Vitale non ha gradito la banda”.

Stefano marchetta

Mar 24, 2016 - Articoli    No Comments

Gemellaggio San Salvo con Svenskerenvar (Ungheria).

Parlando con alcuni giovani, anziani e persone non del luogo, ho capito che non tutti sanno cosa sia quel legno posto nel centro della nostra città, tra la diramazione di via Roma e Corso Umberto I.

Le Rivoluzioni del 1989, a volte chiamate l’Autunno delle Nazioni, furono un’ondata rivoluzionaria avvenuta nell’Europa Centrale e Orientale nell’autunno del 1989, quando diversi regimi comunisti furono rovesciati nel giro di pochi mesi. La città di Svenskerenvar (Ungheria) cercò da subito di aprirsi al mondo nuovo, cercando molti gemellaggi con città della vecchia europea per facilitare la crescita della loro città. Nel 1992 chiesero alla città San Salvo e all’allora sindaco Mariotti Arnaldo, di gemellarsi con loro, la delegazione fu ospitata alloggiato nell’asilo nido di San Salvo Marina. Loro si portarono dall’Ungheria un tronco d’albero, il legno fu scolpito e modellato sul suolo ospitante per dare un segno più tangibile di una nascita di fratellanza direttamente sul luogo. Nell’agosto del 1992 il monumento che sigillava il gemellaggio fu posto nell’angolo ovest del monumento dei caduti in guerra. Mentre nella loro città in Ungheria in una parte di nuova costruzione, sempre in legno un monumento pieno di frecce su cui ci son scritte le distanze in km e i nomi delle città gemellate. Poi nel tempo per molti anni la nostra città mantenne vivo il gemellaggio, ospitando e mandando delegazioni in Ungheria. Io ebbi la fortuna essendo un componente della Banda Città Di San Salvo, di andarci due volte a distanza di anni, fui testimone personalmente della voglia di cambiamento nel popolo ungherese, che aveva vissuto sotto il regime filorusso per oltre trent’anni.

Stefano Marchetta

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