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Set 27, 2015 - Articoli    No Comments

“Gli Scooteroni”

Quando passano i ragazzi spericolati con le moto spesso, si sente dire da persone più grandi “A štë ggiuvunë, còccë sènzë cervèllë” (A questi giovani, teste senza cervella), dimenticando che nell’età dell’incoscienza ci siamo passati tutti.

Voglio spezzare una Fiat, scusate una Lancia in favore di questi ragazzi perché guardandomi in torno quando vado in giro con l’auto o a piedi, i più inconsapevoli con le moto sono quelli della mia età o giù di lì, anche se tutti portano il casco, dalla mole fisica si riconoscono che non sono giovani di primo pelo. Ex ragazzini che sono cresciuti, guidando il Ciao, il Sì, il Califfone, il Mini Califfo e altre piccole moto dove la parte più larga erano le loro spalle, essi si potevano incuneare e sgusciare nel traffico come anguille.

Ora gli stessi si sono fatti lo Scooterone, moto grande e ingombrante come auto che occupa una bella fetta di carreggiata, ma continuano a comportarsi come se guidassero un Ciao facendo manovre al confine della sicurezza stradale, specialmente nel traffico cittadino.

Per questo dico prima di additare un giovane sicuramente irresponsabile, forse giustificata dall’età, dove non sono porti a pensare in modo catastrofico, diamo il buon esempio.

Stefano Marchetta

Set 22, 2015 - Articoli    No Comments

GIUSEPPE GARIBALDI RIPARO’ NELL’ABITATO DI SAN SALVO

Giuseppe Garibaldi, con il crollo della Repubblica  avvenuto nell’anno 1849, fu inseguito dalla soldatesche francesi e, dopo numerose e tormentate  peregrinazioni, riparò anche nell’abitato di San Salvo.

Sui libri di storia non è fatto nessun accenno, ma gli anziani salvanesi continuano a parlarne con decisa convinzione.

L’eroe dei due mondi, nei primi  giorni di  febbraio del 1849, era a Roma a difendere la Repubblica contro l’esercito francese  accorso in aiuto dello Stato Pontificio.

Il 30 aprile l’esercito garibaldino “uscì da Porta San Pancrazio e, dopo  una violenta battaglia,  riuscì a sconfiggere le forze nemiche francesi formate da circa 5000 soldati e guidate dal generale Oudinot.

Caduta la Repubblica, Garibaldi fu costretto a darsi alla fuga insieme ad un manipolo di compagni,  tra i quali  Silvio Ciccarone, anch’esso garibaldino, originario di Vasto.

Risalì il Tevere  e, con mezzi di fortuna  entrò nel  territorio abruzzese- molisano. Seguì il corso del fiume Trigno e dopo durissimo viaggio si trovò  nei pressi dell’abitato di San Salvo.

Stanco e affamato percorse insieme ai  compagni  le strada di  Madonna delle Grazie e della  Fontana Vecchia (la saléte de la fànde) in cerca di qualche rifugio.

Rifugio che trovò  quasi subito  nel sottoscala della famiglia Napolitano, attualmente di proprietà di Mimì Napolitano, attiguo alla casa dei” Cilli”(demolita negli anni 60) , trasformata in un luogo di cultura che ha preso il nome di”Porte de la Terre”.

Appena  spuntò il giorno, il generale  riprese la fuga e,  marciando attraverso  un viottolo del tenimento della famiglia  dei “Nasci” arrivò  alla foce del torrente Buonanotte, dove era atteso  da alcuni amici. A bordo di   un bragozzo da pesca giunse in terra marchigiana ,per proseguire verso San Marino.

Eludendo le navi  austriache, il generale  arrivò a Cesenatico, per  proseguire la mattina dopo alla volta delle  valli di Comacchio, dove in una  vecchia cascina  si spense Anita, l’eroica compagna della sua vita.

 

Michele Molino

Set 17, 2015 - Articoli    No Comments

La corsa dei cavalli a San Vitale.

In un tempo passato, nella giornata dë lë sagnitèllë dopo aver scaricato lë sàmuë (le some) dai cavalli al mulino, si organizzavano gare di corsa, ogn’uno poteva partecipare con il proprio cavallo. Alcune famiglie non avevano solo cavalli da lavoro, ma anche purosangue e cavalli dediti alla corsa, erano sempre i favoriti, mentre alcuni pur avendo cavalli quotati desistevano dal partecipare perché non poteva mettere a rischio il cavallo, il bene più importante e prezioso per la sopravvivenza della propria famiglia, nel caso ci fosse stata una caduta rovinosa per l’animale stesso.

Il percorso era così costituito, la partenza era la pòrtë dë la tèrrë (la Porta della Terra), si percorreva tutto lu cuàrsë Garebàldë (il Corso Garibaldi), si arrivava a lu tèrmenë (il termine, pietra miliare posta alla fine di corso Garibaldi sulla via per Lentella) e ritorno ripercorrendo lo stesso tragitto verso il traguardo che era lo stesso luogo della partenza.

Come ali di folla i paesani che si disponevano lungo il percorso in un’euforia collettiva dato anche da qualche bicchiere di buon vino, incitavano e spronavano i partecipanti alla vittoria.

Tutto questo venne a scomparire con l’arrivo dei trattori e la sparizione man mano dei cavalli.

Quella giornata era una delle poche occasioni di aggregazione e gioco collettivo dove tutto il paese partecipava, tutti si astenevano dai lavori nei campi per fare festa. Per il divertimento di tutti si organizzavano anche corse con gli asini, corse con i sacchi e altro.

Stefano Marchetta

Ago 13, 2015 - Articoli    No Comments

Lë Murtàlë (Il mortaio da cucina).

Lë murtàlë è un utensile utilizzato per pestare.

mortaio

Si tratta essenzialmente di un recipiente, dal fondo tondeggiante, in legno duro comune nelle famiglie povere o metallo in bronzo per le famiglie più agiate, nel quale sono poste le sostanze, che sono poi triturate dall’azione di un pestello (lu Puštàllë), una corta mazzetta costituita da un’impugnatura e da un’estremità più larga e pesante.

Un tempo c’era solo il sale doppio (Tarrachìutë) uno degli elementi più importante e indispensabile del vivere e sopravvivere in una civiltà contadina che doveva conservare gli alimenti per un lungo periodo.

Elemento così importante che persino i legionari romani erano pagati con il sale, da questo e nato il termine “SALARIO”.

Quando si era piccoli quest’attrezzo era il primo banco di prova che le madri adoperavano per dare stimoli di crescita dei propri figli, triturare il sale grosso per renderlo fine per poterlo usare in cucina, era una responsabilità, ma anche un orgoglio per i piccoli perché li facevano sentire parte del vivere in e per la famiglia.

Poi c’era uno più grande che serviva per frantumare il grano e farne farina per il consumo quotidiano, poi nel passare del tempo poiché la farina si trovava con facilità, lo stesso è stato usato fino a qualche anno fa per triturare i pepi, la cui polvere veniva, usata per fare salsicce ventricine e altro.

Stefano Marchetta

 

Lug 25, 2015 - Articoli    No Comments

La cunzèrvë dë pammadòrë

Una volta per le strade di San Salvo e nei luoghi soleggiati (a la sulàgnë) spazio dove il sole seguendo il suo percorso batteva tutto il giorno, come una spiaggia piena di persone ad abbronzarsi, era normale incontrare spianatoie (spranatìurë) con il passato di pomodoro allargato su di esse. Per dar modo al sole di far evaporare l’acqua in eccesso e nello stesso tempo operava una cottura della conserva, mentre le donne di tanto intanto rimescolavano il tutto per avere un’asciugatura uniforme e qualche volta eliminare il ricordo depositato su di esso da qualche uccellino di passaggio, la miseria era tanta che non era permesso, essere schizzinosi, ottenendo così un concentrato di pomodoro. Non era come adesso che reperire bottiglie, barattoli in vetro e tappi e normalità, il prodotto finito dopo tanti giorni ad asciugare si riponeva in recipienti di terra cotta smaltati (lë menàrë) e all’occorrenza se ne prendeva un poco che diluito con l’acqua si faceva il sugo per pasta.

Stefano Marchetta

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“Felìcë Sebòn”

Felice Tomeo e Umberto Di Biase (Felice e Umberto)

Non tutti conoscono Felice Tomeo, ma tutti sanno sicuramente con certezza matematica chi è Felìcë Sebòn.

Vi siete chiesti mai l’origine di questo nomignolo?

Per scoprirlo bisogna tornare indietro nel tempo alla fine degli anni ’60, quando Felice ragazzone alto e con una folta criniera bionda frequentava le scuole medie, in quei tempi si andava presto a scuola e in attesa che la prima campana delle 8:20 chiamassero gli alunni in classe, si girava in tonto intorno all’istituto per incontrare gli amici o la persona per cui nasceva la prima simpatia, il primo amore.

Alle 8:30 iniziavano le lezioni, proprio nell’ora di francese Felice fu chiamato alla lavagna dall’allora professoressa Calderoni (la prof Coscia Lunga come ricorderanno in tanti), andando in panico s’incasino nello scrivere va bene in quella lingua doltr’Alpi, scrisse cette bò invece di scrivere ce est bon, la professoressa lo corresse gridando se bòn, se bòn, in quel momento nella mente del compagno e ancora amico Umberto Di Biase (Umbèrtë Biacìllë) già incuriosito dal modo in cui Felice salutava lo zio Biondo Tomeo “Zì Bò” quando passava davanti all’omonimo bar, decise di fondere i due episodi e ricavarne un unico nomignolo con cui lo battezzo, Sebòn.

Questo sicuramente piacque ai molti quando Umberto chiamava Felice, così questo continuo ripetere a tutte le ore e in tutti i luoghi, fece in modo che anche gli amici e le amiche(con tonalità sexy) a scanso di equivoci e omonimie, cominciarono a chiamare il compagno un po’ per gioco e un po’ per prenderlo in giro, solo con il pseudonimo Sebòn.

Umberto di certo non avrebbe mai immaginato che quella sua simpatica espressione sarebbe resistita così a lungo, che giorno dopo giorno si allargasse a macchia d’olio, da divenire a distanza di cinquanta anni un nome di battesimo indelebile non solo a indicare Felice persona e commerciante, ma è diventato per tutti sansalvesi il sinonimo di risata, simpatia, allegria e spontaneità, ma soprattutto sta a indicare:

IL TEATRO DIALETTALE SANSALVESE”.

Stefano Marchetta

Mag 1, 2015 - Articoli    No Comments

La Pipezzerë

Era usanza che il mugnaio dell’antico mulino di Pantanella situata un tempo a San Salvo marina, dopo aver macinato il grano che serviva per fare purcellatë (i taralli), offriva per la festa del Santo Patrono la pipezzerë o pepezzerë che non era altro che un palo abbellito con nastri colorati, su cui erano legate delle pagnottine di pane, essa era messa in palio l’ottava di San Vitale, precisamente il 5 maggio.

Il comitato durante la raccolta delle offerte portava in giro la pipezzerë per farla vedere, così le famiglie che davano l’offerta partecipavano alla sua estrazione, alla famiglia cui andava la pipezzere veniva da tutti considerata fortunata perché era ritenuta scelta dal Santo.

La pipezzerë nel tempo subì delle trasformazioni prima divenne una croce per poi arrivare negli anni ’50 a una forma ovoidale fatto in legno intrecciata a mo di rete che era rivestita con carta velina e nastri di diversi colori, su cui erano legate le pagnottine.

Anche le pagnottine di pane ebbero un’evoluzione trasformandosi in dolci dalle forme di cavalli, pupe, colombi, cuori e altro, preparate dalle sapienti mani delle donne che partecipavano alla preparazione delle sagne e dei taralli di San Vitale.

Una volta cotti i dolci, una parte rimaneva così come usciti dal forno, una porzione  era decorata e la restante era impreziosita con lu ggiuluèppë biànghë (sciroppo denso di zucchero).

Stefano Marchetta

Apr 15, 2015 - Articoli    No Comments

“Lë pircellètë”.

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Lu percellàtë, è il più antico tipo di dolce, tipico del centro meridione fatto solo con farina, lievito, acqua e sale, era offerto ai poveri nelle varie occasioni festive davanti alle chiese.

A San Salvo fu creata una a forma dentata dedicata a San Vitale patrono della città, esso vuole rappresentare l’aureola del Santo. Lu percellàtë è preparato dalle donne per essere distribuito gratuitamente alla popolazione il giorno della festa il 28 aprile. Formata da due cerchi di pasta sovrapposti una dentata e una no, poi sono fatti aderire bagnando le parti che si vanno a toccare, alla fine prima della cottura è impresso un sigillo formato da tre lettere SVM (San Vitale Martire). L’impasto per la sua semplicità induriva subito, le persone a parte qualche pezzo che era portato in campagna da appendere a qualche albero a benedizione, protezione o per ringraziare per un futuro raccolto, per poterlo mangiare tutto si ammorbidivano con acqua, per non mettere a rischio la dentiera. Ricordo che mio padre diceva: “Nghë lu purcellàtë, jé cë dècë la massë” (Con il porcellato, io ci dico la messa), perché lo ammorbidiva con un po’ di vino “Corpo e Sangue di Cristo”.

Ora la ricetta è cambiata sono stati aggiunti nuovi ingredienti come uova e zucchero, divenendo quasi un dolce morbido e fragrante.

La forma è rimasta fedele a quella originale.

Ps: Ricordo un aneddoto di quando ero piccolo gli anziani per giustificare la povertà dell’impasto dë lu percellàtë, dicevano che doveva essere fatto così perché San Vitale aveva il diabete.

Stefano Marchetta

Apr 10, 2015 - Articoli    No Comments

“La confusione sessuale”

Non tutti sanno che le pesche di san Salvo sono sempre più proiettate in difesa della salute di chi li mangia.

La “confusione sessuale” (Free Ormoni) è un metodo biologico impiegato nella difesa delle colture dall’attacco di vari Lepidotteri che si basa sul rilascio nell’ambiente di feromoni (ormoni sessuali), in maniera da crearne una concentrazione in aria sufficiente a compromettere la capacità del sistema olfattivo dei maschi e quindi alla perdita di capacità da parte del maschio di rintracciare le femmine per effetto della “copertura” delle piste olfattive.

Il risultato finale è la riduzione degli accoppiamenti e quindi del numero di uova deposte e cosa più importante la riduzione drastica dei trattamenti con pesticidi.

Quando acquistate una pesca, non guardate solo il prezzo, ma cercate la provenienza, la salute fisica è unica, proteggiamola dalle invasioni d’importazione.

Stefano Marchetta

Mar 29, 2015 - Articoli    No Comments

La Domuànechë dë lë Pàlmë (la Domenica delle Palme).

Quando si va in chiesa di questi tempi, il parroco fa trovare ramoscelli di ulivo sciolti o confezioni regalo con frasi del vangelo da dare a fine messa.

Ricordo che da ragazzino la domenica delle Palme bisognava alzarsi presto per andare in giro nel quartiere a trovare fiori, bussare alle porte e chiederne alle donne che avevano un giardino o prenderli senza permesso, perché non c’era tempo da perdere bisognava addobbare la palma di ulivo (la fràschë dë la lèvë) che mio padre aveva riportato di buon mattino dalla campagna.

Una volta legati i fiori mia madre aggiungeva nastrini colorati per renderlo più bello, poi tutti in chiesa per la benedizione, don Cirillo ci faceva mettere tutti, dove sta la statua di San Vitale un tempo chiuso con un recinto di ferro e cancello, in attesa che lui ci invitava ad alzarli e oscillarli mentre li benediva. Stipati in quel piccolo spazio, era scontato che iniziavano spintoni schiacciamenti di piedi e inimicizie, così all’uscita dalla chiesa puntualmente erano chiariti a frascànnë (colpi di palma) a chi se ne poteva dare di più, la palma simbolo di pace diveniva di colpo arma (ecco perché chiedevo a mio padre di riportarne sempre uno grande). Poi quello che restava si riportava a casa e dopo aver avuto un sonoro richiamo, si portava in campagna come benedizione per un buon raccolto.

Stefano Marchetta

toevs@mailxu.com